Una ricerca condotta da un team dell’Università di Pisa e pubblicata sulla rivista “Frontiers in Human Neuroscience” dimostra che perdonare comporta, per chi perdona, stati emotivi positivi e mette in moto complessi circuiti cerebrali.

Per comprendere gli effetti del perdono i neuroscenziati hanno chiesto a dei volontari di immaginarsi delle situazioni di sofferenza  provocate da altri. Una volta immedesimati nella scena solo alcuni soggetti sono stati sollecitati a perdonare. Nel primo caso per favorire il processo del perdono venivano invitati a considerare che la persona che gli aveva fatto il torto poteva trovarsi in una situazione di difficoltà personale, che poteva pagare anche lui le conseguenze dell’azione compita, insomma venivano messi in evidenza circo stanze che in qualche modo permettevano di riconsiderare gli eventi in maniera meno negativa. Nel caso invece di coloro che non venivano invitati a perdonare si enfatizzavano i motivi di risentimento.  Lo studio condotto sotto il controllo della risonanza magnetica funzionale ha mostrato come i soggetti che riuscivano a provare il perdono esprimevano un maggiore sollievo a livello soggettivo (misurato con apposite scale); correlate con il dato psicologico l’attivazione di specifiche aree cerebrali in particolare il precuneo, le regioni parietali inferiori destre e la corteccia prefrontale dorso laterale.

Nell’Avvenire del 23 novembre, che ha citato lo studio, si legge:

“Si tratta di quelle zone che sono note per essere coinvolte nella teoria della mente, nell’empatia e nella regolazione cognitiva degli aspetti emozionali. «Si può probabilmente dire che il perdono attraverso una rielaborazione razionale del pensiero negativo e una rivalutazione-riconsiderazione del proprio vissuto passi attraverso il mettersi nei panni dell’altro, nell’assumere la sua prospettiva, nel capire che il traditore o l’aggressore sono esseri umani come noi», spiega Pietrini. In questo modo, si dà del perdonare una descrizione anche da un punto di vista biologico, come meccanismo che ripristina la naturale omeostasi, facendo superare il blocco emotivo e lo stato disfunzionale tipici della ruminazione continua sull’episodio doloroso. Pur con le ineliminabili limitazioni di uno studio di laboratorio, e senza la pretesa di spiegare tutte le componenti di un processo così complesso, la ricerca apre la strada a una feconda contaminazione tra livelli di analisi, che potrà avere ricadute positive a livello sociale”

Fonte: http://www.avvenire.it/ScienzaeTecnologia/Pagine/perdono-fa-bene-cervello-segnala.aspx

Sempre sull’argomento si legge su Adnkronos Salute

La corteccia prefrontale dorsolaterale – spiegano gli studiosi – è coinvolta nella modulazione dei vissuti emotivi mediante processi di ristrutturazione cognitiva. Come percepiamo un evento e le sue conseguenze influenza il nostro vissuto emotivo. Un licenziamento, ad esempio, può essere vissuto come un fallimento, come un atto di ingiustizia o come un’opportunità di cambiamento. L’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale suggerisce che la rivisitazione in termini positivi delle conseguenze associate a un evento negativo sia uno dei processi cruciali che vengono messi in atto nel perdonare un aggressore”

Fonte: http://www.adnkronos.com/Salute/Medicina/?id=3.2.899539001

Quindi non è importante solo ciò che accade ma il modo in cui viene dato significato a quanto accade. La capacità di vedere gli eventi da più punti di vista aiuta a prendere in considerazione le diverse componenti coinvolte. Quindi la difficoltà a perdonare potrebbe non essere dovuta solo alla gravità del torto subito ma anche al modo in cui la persona attribuisce significato al torto.

Il discorso del perdono risulta, inoltre, particolarmente importante per la coppia e la famiglia perché tutto ciò che rimane irrisolto può portare a recriminazione e risentimenti che non aiutano la comunicazione e la relazione.

Di: Letizia Mannino

Un pensiero su “Uno studio sugli effetti del perdono

  1. Intervengo con la citazione tratta dal “Diario” di Hetty Hillesum, una giovane olandese morta in un campo di concentramento :”Per umiliare qualcuno si deve essere in due: chi umilia e colui che è umiliato e soprattutto che si lascia umiliare. Se manca il secondo,e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita quotidiana, ma nessuna umiliazione eoppressione angosciosa.” E’ vero quindi che non è importante solo ciò che accade, ma “il modo in cui viene dato significato a quanto accade”.Ho imparato molto da questa giovane donna attraverso la lettura del suo diario in merito al perdono e alla capacità di dare significato a quanto ci accade.

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